Tipico pane sardo, noto con il nome di carta musica, in quanto la sua croccantezza rende rumorosa la masticazione, facendolo appunto “cantare” sotto i denti. Invece il termine carasau deriva dalla parola carasare, che in sardo significa biscottare, in quanto questo pane viene tostato in forno. Le sue origini sono molto antiche, si pensa addirittura nuragiche. Era strettamente legato alla vita agropastorale, infatti i pastori, dovendo allontanarsi da casa per diversi giorni per seguire i loro greggi, lo utilizzavano al momento del pasto, bagnandolo con dell’acqua per fargli riacquistare la freschezza del pane di giornata, sfruttando così la sua caratteristica di conservarsi per lungo tempo. Gli ingredienti base sono lievito, sale, acqua e farina di grano duro (i meno abbienti utilizzavano la farina d’orzo). Il suo processo di realizzazione era un vero e proprio rito di famiglia o di vicinato, che coinvolgeva almeno tre donne, e che si sviluppava in ben otto fasi distinte di lavorazione. Il modo più diffuso di consumarlo è immergerlo velocemente in acqua per restituirgli la morbidezza, e poterlo così avvolgere attorno a salmi o formaggi. Un altro uso frequente è come accompagnamento a pietanze succose o cibi che rilasciano oli o grassi in cottura, come carni di maiale o verdura. Infatti, anche bagnato, il pane carasau mantiene la sua capacità di assorbire i liquidi con i quali viene in contatto. Solitamente per bagnarlo si fa scorrere dell’acqua sul lato ruvido, per poi farla subito sgocciolare, evitando così inzuppare troppo il pane, che altrimenti sarebbe considerato dai sardi un pò come la pasta scotta. Quando il pane carasau viene condito con olio e sale e abbrustolito in forno o sulla griglia viene chiamato pane guttiàu. Mentre quando viene immerso brevemente in acqua bollente salata e poi alternato, un pò come se fosse una lasagna, con sugo al pomodoro e pecorino, con l’aggiunta finale di un uovo in camicia, viene chiamato pane frattàu.